venerdì 10 giugno 2011

E tornammo a riveder le stelle...

Ok, è una lunga storia e per adesso non ne abbiamo il tempo. Ma sì... ma chi se ne frega! Per quanto mi riguarda anche il tempo non è importante. Ciò che conta alla fine è solo riuscire a intravedere un punto, qualunque esso sia.
E io ho intenzione di provarci...

E va bene, ecco il punto. Occorre fare un passo indietro nel tempo per arrivare a comprendere meglio l’origine del tragico destino della fantascienza o per lo meno per riuscire a vedere il bordo del pozzo dove quest’ultima a un certo punto è apparentemente inciampata e poi è piombata giù. Occorre cioè tornare a trenta o anche quarant’anni fa, nel bel mezzo di un’epoca che lasciava presagire un futuro radioso, non solo per la fantascienza stessa, ma per il mondo intero. Un’epoca in cui la New Age sembrava alla fine l’unico futuro possibile per chiunque si fosse sentito realmente pervaso da una qualche spiritualità sensata, non una in particolare, ma una qualsiasi a scelta tra quelle che andavano di moda allora. Dalla non meglio specificata fede per la Madre Terra agli indù, dal Buddismo a Krisna, per arrivare su, su fino all’Helter Skelter o qualsiasi cosa fosse di mansoniana memoria. E tutto mentre i quindici minuti di celebrità erano ancora, sostanzialmente, soltanto un’idea neppure del tutto disprezzabile nella mente di Andy Warhol...

In quegli anni i pezzi grossi della televisione avevano ancora un’etica e l’alcool e le puttane erano il massimo della loro trasgressione. Ecco, fu esattamente allora che, inaspettatamente, la fantascienza piombò nel pozzo.
Ma non fu l’unica vittima.
Anzi, a ben guardare, la fantascienza sembra esser stata solo la capofila di una sfortunata e immaginaria classe di bambini che rispondevano a nomi del tipo racconto dell’orrore, romanzo gotico, ghost story e weird tales.

D’altronde, chiunque abbia frequentato anche per appena un pugno di ore, il mondo della narrativa e, perché no, anche quello del cinema, può raccontare vere storie agghiaccianti su scrittori, editori e produttori in grado di far impallidire il più spietato trafficante d’organi di Calcutta e può così comprendere come furono proprio loro a condannare in qualche modo certa narrativa, consegnandola definitivamente all’esistenzialismo più becero e insignificante.

Appare quindi tutt’altro che campato in aria il sospetto che, più che un incidente, possa essersi trattato di un pluriomicidio e che alla fine più che sfortunatamente caduti, i nostri immaginari bambini, furono spinti giù dai loro stessi genitori.

Naturalmente non troverete nessuno disposto ad ammettere le sue colpe e ci sarà persino chi non esiterà un istante a cercare di accusare voi di sovversione o complottismo, oltre che naturalmente di essere, sempre voi, in qualche modo manipolati da un qualche avversario immaginario, intenzionato a screditare l’ambiente per una mera questione d’invidia.
Cosi vanno le cose.
Ricordate: Trust nobody! Non fidarti di nessuno.

Non mi pare comunque il caso di insistere con le mie deliranti visioni di bambini caduti e ipotetici genitori assassini, non adesso per lo meno che sono finalmente riuscito a tornare in possesso del mio Teoria del sovrannaturale di H.P. Lovecraft, che credevo perduto per sempre. Del resto, nessuna persona sana di mente presterebbe mai un saggio tanto prezioso a chicchessia; io però l’ho fatto e questo non depone certo a mio favore.
Ma se non altro mi lascia una certa libertà di azione.

Sia come sia, H.P. Lovecraft, è cosa nota, aveva una visione tutta sua riguardo alla narrativa di fantascienza e di certo aveva le idee molto chiare su cosa facesse veramente paura e cosa no. Lo sappiamo, era fermamente convinto che il più antico e intenso sentimento umano fosse la paura, e il genere di paura più antico e potente fosse l’ignoto. E proprio su questo, probabilmente, in gran parte si sbagliava, forse tratto in inganno dal suo, per nulla velato, disprezzo per il genere umano.
Non che non ne avesse i motivi, tutt’altro!

Fu però forse proprio questo disprezzo, per assurdo, a fargli sopravvalutare l’uomo e a farglielo considerare come un essere sostanzialmente consapevole e in grado di capire quale veramente fosse il suo posto nella logica dell’universo.

Lovecraft in realtà non si rese mai perfettamente conto che di fronte all’oscurità dello spazio profondo l’uomo aveva quasi sempre preferito scrivere sonetti d’amore alle stelle invece che rifugiarsi rannicchiato in un angolo, tremante e sconvolto dall’inspiegabile immensità come logica avrebbe voluto.

A discolpa di Lovecraft va comunque detto che quando era in vita, ancora il peggio sia per la fantascienza che per l’uomo doveva venire e che quindi la sua ingenuità risulta del tutto giustificata.
Inoltre non lo colloca nella lista dei presunti padri assassini...
Furono infatti probabilmente gli anni Sessanta il vero baratro. La definitiva consacrazione cioè dell’arroganza, soltanto per un paio d’anni nascosta dai migliori principi del power flower, di quello stesso uomo che Lovecraft in buona fede aveva, pur nel disprezzo, del tutto idealizzato.

Quell’arroganza che tra l’altro spinge tutt’ora l’essere umano a credere di essere depositario di una qualche energia se non cosmica per lo meno spirituale e a mantenere la delirante convinzione che un giorno questa, anche davanti all’immensità e all’orrore dell’ignoto, riuscirà in qualche modo a prevalere...
(Francesco Cortonesi)

lunedì 30 maggio 2011

E se non stessimo poi tanto male?

Generalizzare è un ottimo modo per dimostrare di essere degli sciocchi. Eppure chi pensa che agli italiani piaccia un sacco mugugnare, lamentarsi, prendersela col governo ladro per il maltempo, non si allontana troppo dalla verità. È uno dei nostri sport nazionali. Dobbiamo avere qualcosa o qualcuno che ci offra l’occasione di dire: “eh, se andasse meglio di così”...
Succede anche nelle nicchie, quindi anche nella nicchia della fantascienza.
Ma... vi coglie mai il dubbio che le cose non vadano poi tanto male? Vi capita qualche volta di avere un bel rigurgito acido di ottimismo?
Stiamo condividendo un’epoca di lento e inesorabile sgretolamento delle barriere. Blog, riviste on-line, movimenti e club assortiti, disponibilità pressoché immediata di qualsiasi prodotto editoriale o audiovisivo, una sempre maggiore emancipazione dall’idioma italiano, il web come immensa biblioteca cui attingere informazioni. Tutto questo sta facendo collassare il sistema di cui spesso ci lamentiamo. Almeno questo ammettiamolo: viviamo una situazione fluida, senza veri punti di riferimento.
E, a guardare quali erano i punti di riferimento, prima, c’è di che asciugarsi il sudore dalla fronte e sospirare di sollievo. Quindici anni fa, prima dell’avvento massivo di internet, cosa avevamo? Qualche maestro barbuto, qualche cenacolo, qualche rivista “mitica”, qualche premio più o meno ambito, qualche pistolotto, e su tutto un senso di appartenenza che somigliava più a un senso di sudditanza. Oggi si sta rovesciando ogni cosa: i maestri collezionano figuracce sul web, i cenacoli si moltiplicano esponenzialmente, i premi stanno perdendo di appetibilità, le riviste vengono criticate, maltrattate, liquidate con un’alzata di spalle, i pistolotti sono diventati, come si suol dire, un “dito nel culo”, e il senso di appartenenza s’è trasformato in “senso di partecipazione”. Parliamo di una partecipazione il più delle volte magnificamente caotica, disinteressata, folle, autistica e ludica. Una partecipazione che esiste, vigorosamente, senza l’imprimatur dei “vecchi maestri” o delle riviste ufficiali (ufficiali per chi, poi?) e senza moralità. Non c’è nessun senso di coerente rivolta, nessun disegno o obiettivo ultimo. E questa è una svolta notevole. Tutto sta accadendo spontaneamente, quasi senza una ragione, e - come insegnava Baudrillard, “ciò che non ha un senso per esistere, non ha nemmeno un motivo per fermarsi”.
C’è di che fregarsi le mani, altro che lamentazioni. Basta farsi un giretto tra le tante pagine dei Connettivisti (incapaci di mettersi d’accordo fra loro su cosa sia il connettivismo, e per questo vispi, vitali e gravidi di idee), imbattersi in qualche blog dove un fantascienziato con meno di trent’anni parla di libri di fs mai tradotti in italiano, leggersi la testata-non-registrata dove si tratta di letteratura di genere con un grado di professionalità più elevato di quello di qualsiasi testata-registrata, sbirciare le opere che illustratori nostri conterranei pubblicano direttamente su riviste on-line inglesi o americane. È vita, attività, novità. Un pulsare di cose scritte, disegnate, filmate che esistono a prescindere dai dettami e dalle regole del mercato.
E se dire una cosa così suona banale, è solo perché è sotto gli occhi di tutti già da tempo.
Certo, non è un passaggio indolore: si deve rinunciare a qualche mitologia: lo “scrittore professionista”, la “celebrità”, l’ufficialità dei premi, l’orgia sociale della convention. Però, alla fin fine, chi se ne frega. Lo strappo è troppo netto, la disconnessione troppo radicale, per soffermarsi a piangere su questi feticci (per altro già abbondantemente smitizzati e ridicolizzati). I professionisti hanno tutti un secondo lavoro. La celebrità diventa spocchia. L’ufficialità dei premi genera invidie e fazioni. Le convention sono semplicemente dei mercati. È un mondo in rovina, che ogni giorno perde un pezzo. E okay che lamentarsi è uno sport amato, ma a rimanersene appollaiati al centro della zona del disastro è puro e semplice masochismo: lasciamo che lo facciano i vecchi maestri che ancora credono di vivere negli anni ‘70/80.
La tabula rasa non coinvolge le idee, lo spirito di azione, il “fare”. Anzi, idee e azioni ne escono rinforzate, perché nel crollo vengono coinvolte le mode, le parrocchie, le correnti, le moralette. Si passa da un sistema centralizzato, gerarchizzato, fondato sulla “gavetta” e sulla stretta di mano, a una magnifica anarchia che non pretende la visibilità, non aspira a vincere un trofeo, quasi se ne infischia della pubblicazione “tradizionale” e semplicemente esiste e si fa i cazzaccci propri.
La rete è piena di gente che si fa i cazzacci propri. Stranieri in terra straniera.
Quindi, di che lamentarsi? Ammettiamo di vivere in uno dei migliori mondi possibili, in una mappa ancora bianca.
Hic sunt leones.
(Ivo Torello)

giovedì 26 maggio 2011

A zonzo per lo spazio

E così, eccoci qui, in pieno Terzo Millennio, a bordo di una biosfera da noi letteralmente e totalmente infestata, dove persino il più debosciato e patetico degli esseri umani sembra in grado di riuscire a trovare un buon motivo per vivere o sopravvivere. L’amore, la letteratura, la vendetta, il sogno, le buone azioni, l’ecumenismo, la psicanalisi, la liberalizzazione, il desiderio e l’amicizia sembrano tutti motivi plausibilmente validi e ben poco contestabili se inquadrati nella diabolica e perversa convinzione che in qualche modo il futuro ci appartenga.

È su questa banalissima e patetica certezza che si è arenata la fantascienza ufficiale, certa al di là di ogni ragionevole dubbio, che fosse prima di tutto necessario garantire una dimensione univoca al suo prediletto protagonista. “Siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni” diceva una volta il Bardo, ovviamente ignaro del fatto che qualche secolo dopo persino la fantascienza avrebbe provato, grondante di presunzione, a ribaltare tale affermazione e a rendere i sogni fatti di sostanza umana.

Ed è in questo egocentrico contesto che abbiamo immaginato il pianeta Terra come nostro e ancor più bambinescamente come una bellissima astronave a nostra completa disposizione ideata per portarci chissà dove. Adesso però, se è vero che ci apprestiamo a entrare nella tanto attesa e non meglio identificata era dell’Acquario attraversando come sostiene Alexei Dimitriev, geofisico dell’Accademia Russa delle Scienze, una regione accidentata e precisamente in strisce magnetizzate e striature contenenti idrogeno, elio ossidrile (un atomo di idrogeno e un atomo di ossigeno uniti da un solo legame) e altri elementi, combinazioni e composti: detriti spaziali, forse resti di una stella esplosa.(1) viene da chiedersi se non sia sin troppo umiliante per la nostra tanto (a torto!) sbandierata intelligenza, esser diventati parassiti del tutto ciechi e sempre più incapaci di riconoscere realmente il valore di ciò che da sempre la scienza ci suggerisce, ovvero che non solo siamo del tutto ininfluenti rispetto al cosmo intero, ma che persino a bordo della nostra tanto amata astronave siamo zavorra più che equipaggio, felicemente sacrificabili anziché indispensabili.

Accettare questa realtà sarebbe però forse fin troppo spaventoso, ben lo comprende la edulcorata fantascienza odierna, concentrata come si è detto a cercar di salvare il salvabile e a rassicurare il lettore sul fatto che il nostro antropocentrismo ha ben donde!
In fondo non vorremo mica aver paura per davvero?!
(Francesco Cortonesi)

(1) Alexei Dimitirev – Planetophysical State of the Earth and Life - Published in Russian, IICA Transactions, Volume 4, 1997

lunedì 23 maggio 2011

Sembra fantascienza, ma non lo è

Quanto è popolare questa frase? La sento ripetere nei documentari di Discovery Channel, la leggo di continuo nei testi di divulgazione scientifica, mi capita di udirla di persona se scambio quattro chiacchiare con chiunque abbia una minima preparazione di fisica o biologia. Sembra fantascienza, ma non lo è.
Si può applicare a tutto. Dalla Teoria M all'ingegneria genetica, dall'Energia Oscura alle dimensioni extra. Roba che, in effetti, sembra fantascienza.
Ma non lo è.
Quindi: cosa diavolo è (diventata) la fantascienza?
Qualcosa - come dicono alcuni - di non subordinato al progresso della scienza? Nel caso, allora, non converrebbe chiamarla Arturo, Marcello, Cagliostro invece che "fantascienza"? Sarebbe buffo, ma certamente meno paradossale.
Certo, inneggiare alla libertà creativa, non subordinata ad alcunché, piace a tutti. Salvo scoprire che Arturo, Marcello, Cagliostro a qualcosa sono subordinati: all'antropocentrismo, alla sociologia, alla metafora dei "sofferti tempi d'oggi", che - sempre per alcuni - è l'atto costitutivo della fantascienza. Con buona pace di Wells, Verne, Lovecraft e chi la fantascienza l'ha "costituita" sul serio.
Macché. Il discorso non torna. Arturo, Marcello e Cagliostro stanno occupando abusivamente un'etichetta.
E non è una faccenda solo italiana. Sembra fantascienza, ma non lo è un po' dappertutto.
Le eccezioni non mancano, per carità (chessò... un tv-show ben riuscito come Fringe). Ma sono poche. Abbiamo creato, con gli anni, delle "immagini" decisamente statiche. Il cyber-thriller, Ghost in the Shell, Matrix, le intelligente artificiali che schivano proiettili in stop-and-go in un futuro alla Orwell. Mentre la scienza, col suo potenziale spaventoso di idee, è altrove. Abbiamo barattato la fs con la fantasy, ovvero con un mito esteticamente coerente. E va bene così. Bisogna pur vendere, bisogna pure aspirare alla gloria e alla fama, bisogna pur essere "cittadini del presente", parlar per metafore, riflettere sulla società.
Ho un dubbio che somiglia a un tarlo fisso. Che la fantascienza sembri fantascienza, ma non lo sia affatto. Che sia invece una piccola porzione di scienza (la sociologia, se non la filosofia) con tanto fumo intorno.
E la fisica, la biologia, qualsiasi altra scienza? Qualsiasi altra idea?
Paraletteratura. Evasione. Gioco per bambini.
O parli dell'uomo, oppure sei morto.
Ma l'universo è grande...
No. O parli dell'uomo, oppure sei morto.
(Ivo Torello)

venerdì 20 maggio 2011

Egan #1

Chiunque insista che la fantascienza deve essere prima di tutto sulla gente e secondariamente sulle idee sta soltanto pronunciando uno slogan. A volte le sole persone richieste sono il lettore e lo scrittore.
Greg Egan

giovedì 19 maggio 2011

Lovecraft e gli abissi della scienza

Michel Houellebecq (1) per primo individua nell'opera di Howard P. Lovecraft una sorta di componente bellica, fatta di tecniche di assalto, logistica, regole scientifiche che, se applicate, mettono nelle mani dello scrittore nuove e inedite armi: armi nate dall'immaginazione, che facciano da antidoto sovrano contro ogni forma di realismo.
Ma perché scagliarsi contro la realtà? Lovecraft - e questa sembra una delle delle caratteristiche dello scrittore di Providence meno comprese - non attacca affatto la realtà, e non propugna nessuna puerile e sonnacchiosa rivoluzione surrealista. Anzi, per lui realtà e realismo diventano, paradossalmente, antitetici. Lovecraft considera la realtà una componente imprescindibile della propria opera, e le si consacra senza riserve. Ma come scienziato, e non come poeta o scrittore. Scrive a Rheinhart Kleiner, nel settembre del 1919: Poiché non sei riuscito a trarre soddisfazione dalla contemplazione di te stesso quale centro altamente organizzato di impressioni e sensazioni, cerca di percepirti come un granello di polvere nel mezzo dell'infinita creazione, le cui profondità nascondono vasti segreti che attendono una soluzione. C'è vita ed eccitazione nel pensiero: al posto di Lamb, Keatys, Shelley o Tennyson prova Darwin, Huxley, Tyndall, Spencer ed Haeckel. Sii uno scienziato anziché un letterato. (2)

Sii uno scienziato anziché un letterato: in questa frase si annida il seme della "rivoluzione copernicana" della letteratura, che di lì a qualche anno troverà la sua massima espressione nei grandi testi che formano il nucleo centrale dei miti di Cthulhu.
Lovecraft è il primo a sperimentare questa mutazione su se stesso. Per lui si tratta anzi di processo inevitabile. Cresciuto col sogno di diventare uno scienziato, e del tutto disinnamorato del mondo letterario e della gente che lo frequenta (come avrà modo di ribadire a F.B. Long (3)), Lovecraft non desidera affatto accedere a un mondo che vede come un decadente baraccone, e che placidamente detesta. Desidera seguire la propria strada e nulla più, senza alcuna concessione ai gusti del prossimo e alle mode letterarie. Essere un artista anziché uno scienziato sarebbe per lui un tradimento, uno svilimento. E come scienziato rifiuta categoricamente le convenzioni su cui si basano sia il genere detto "realistico", sia il racconto soprannaturale di impianto gotico o vittoriano. Questo permette di comprendere perché alcuni lettori, magari avvicinandosi a Lovecraft partendo da autori convenzionali, lo giudichino insopportabile (oltre che illeggibile e noioso): è come se costoro comprassero un libro di astrologia, smaniosi di sapere quanto noialtri umani siamo cari alle stelle, e sul più bello scoprissero di avere tra le mani un saggio di astrofisica pieno di equazioni e gelide verità.
Per questo leggere Lovecraft può anche significare venir espulsi dal mondo della letteratura. Da un lato HPL invoglia ad approfondire autori da lui giudicati dei "maestri", ma da un altro offre una nuova prospettiva che ci rende insopportabile qualsiasi testo troppo antropocentrico oppure legato alle convenzioni sentimentalistiche: e per paradosso alcuni dei "maestri" riconosciuti da Lovecraft sono proprio gli autori di trite metafore antropocentriche, perché Lovecraft argomentava sulla narrativa fantastica senza tener conto del ruolo fondamentale che avrebbe assunto nella sua evoluzione. Quindi, piuttosto che scivolare nuovamente in una prospettiva antropocentrica, meglio - una volta esaurito il corpus delle opere di Lovecraft, e dei pochi epigoni che ne hanno seriamente proseguito l'opera - dedicarsi a saggi di archeologia, fisica, biologia; meglio una storia della scienza in otto volumi, meglio - per paradosso - l'antropocentrismo del folklore, della neurologia, della storia delle religioni o della stregoneria - purché rigoroso, e non scritto dall'ultimo grottesco e surreale guru alla moda.
È come se Lovecraft invitasse a guardare il mondo da una prospettiva più alta - la vetta di un monte - rinfrescandoci con la sua brezza, calmando i nostri sensi sopraeccitati dal melodramma quotidiano, dalle facezie umane - sessuali, politiche, mondane, economiche - offrendoci una prospettiva più fredda, disillusa, ma anche più sincera, e in fondo più pacata e adulta. Come se ci mostrasse il brulicare degli esseri umani, incatenati a convenzioni che definiscono realtà, per poi rivelarci - con un cenno della mano - la realtà sconfinata che si trova tutto intorno al mondo umano: i cieli fitti di stelle, pianeti e materia oscura, gli oceani abitati da forme di vita inimmaginabili e terribili, le infinite dimensioni del tempo e dello spazio. In questo Lovecraft offre una pura e prorompente rivelazione estetica: come si può tornare - dopo aver anche solo intravisto simili abissi - ai romanzetti di fantasmi, ai pruriti sessuali delle psicomagie, ai Fielding, agli Hemingway, ai Moravia e ai Cesare Pavese senza nemmeno provare un vago senso di claustrofobia, di mutilazione e di perdita?
Sempre Houellebecq nota giustamente come in Lovecraft ci sia qualcosa di "non esattamente letterario", e come abbia fatto esplodere l'impostazione del racconto tradizionale tramite l'utilizzo sistematico di termini e concetti scientifici. Lo stesso Cthulhu è una combinazione di elettroni, proprio come noi. Il terrore di Lovecraft è rigorosamente materiale.
Eppure, questa materialità non deve far pensare a qualcosa di prosaico; Cthulhu non è materiale poiché legato alle "cose umane" come lo sono, appunto, i lamentosi spettri gotici o i ripetitivi assassini dell'horror a noi - purtroppo - contemporaneo. Cthulhu è materia - in modo puro e del tutto non-simbolico - come lo sono meteoriti, tsunami ed esplosioni vulcaniche; Cthulhu è materiale in quanto organismo e, semmai, al suo cospetto siamo noi umani a venir in qualche modo riallacciati alla nostra autentica natura (appunto organica, atomica, transitoria), senza la consolazione che Egli possa condividere i nostri valori, nemmeno per sovvertirli. Cthulhu, insomma, non è Satana. Se Cthulhu appare "sovrannaturale" è solo a causa della limitatezza dei nostri sensi e del nostro intelletto: non ci è dato conoscerlo, così come non ci è concesso di comprendere le deliranti geometrie non euclidee della sua prigione sorta dagli abissi, R'lyeh. Davanti a lui siamo impotenti come dinanzi ai misteri del cosmo insondabile.
Uno scrittore espelle i propri lettori dal mondo della letteratura (oltre che dal puerile simbolismo magico-religioso tradizionale) e gli offre in cambio la fredda, ma anche affascinante, Scienza. Li spinge alla Storia, che contrappone ai minimi patemi del singolo, e al sapere concreto contrapposto alle mille ombre e illusioni evocate dall'umanesimo. E tutto questo perché accetta la sfida di generare una nuova prospettiva esattamente come un fisico si pone di fronte a un più profondo livello di indagine della materia, e si propone di agire con intuizioni e metodologie devastanti, finendo magari per fare ciò che ha fatto Oppenheimer.
Alla domanda "cosa c'è dietro la realtà?" Lovecraft offre spiegazioni insieme grandiose e agghiaccianti. Laddove tanti altri scrittori si limitano a rassicurare il lettore con vecchie filosofie e convenzioni antropocentriche, lui offre manuali di scienza, provette e atlanti astronomici; la sua mitologia scalda la materia, sia sottraendola alla paternalistica divulgazione for dummies, sia rivelando il fondo maligno per l'uomo, ma in sé caotico e indifferente, dell'Universo. Detrattore agguerrito e preparato di ogni astrologia, teosofia, alchimia, le fa implodere semplicemente offrendo al lettore un più elevato punto di osservazione. Lovecraft le fa, si può dire, crollare sotto il peso della propria grandezza. E c'è gioia in questa distruzione. Una gioia che le vittime del crollo - orfane delle proprie zuccherose illusioni - non possono che giudicare sadica. Buffo destino per un autore che avrebbe considerato Sade umano troppo umano.
(Ivo Torello)

(1) Michel Houellebecq, Contro il mondo e contro la vita, Bompiani, 2001
(2) H.P. Lovecraft, Lettere dall'Altrove, Mondadori, 1993
(3) Ibid.

Fantascienza senza futuro?

La scienza è in continua evoluzione, mentre la fantascienza ristagna. Alcuni sottogeneri sono come gemiti di disperata impotenza: lo steampunk, da questo punto di vista, rasenta il patetico. Mi domando perché a un allargamento della prospettiva corrisponda una tale decadenza...
Una teoria l'avrei, ma è un po' radicale (in senso letterale, dato che riguarda la radice stessa del "fare fantascienza"). Tutti gli ultimi libri di divulgazione che ho letto mi hanno fatto dire: "ma quanto è lovecraftiano l'universo" [Gould, Quando i cavalli avevano le dita; Pinna, Declino e caduta dell'impero dei dinosauri; Seife, Alfa e Omega; Smolin, L'universo senza stringhe]. Davanti alla scienza, Star Trek appare come una mitologia astronautica davvero sorpassata, il cyberpunk una sottocultura giovanile, la realtà virtuale un videogame e le IA una promessa impossibile da mantenere. Invece trionfa Lovecraft: biologia impazzita, teratologie cosmiche, universi fatti di universi che contenono altri universi, stringhe e membrane che somigliano ai vagiti di una nuova, terribile religione e, ovviamente, materie oscure dappertutto. I neri mari d'infinito, insomma. La fantascienza ristagna per questo motivo: gli scrittori di fantascienza, nella stragrande maggioranza, sono terrorizzati, anzi annichiliti da un multiverso oscuro vomitante demoni e geometrie non euclidee. Non sopportano una tale, schiacciante vittoria dei vecchi narratori Weird, dimostratisi col tempo più "realisti" di Gibson e Dick (vogliamo parlare della plausibilità scientifica dei "replicanti", a tal punto nulla da imparentarli direttamente alla fantasy?). Così sono cascati nel ristagno, nel manierismo. Hanno preferito chiudere gli occhi e diventare scrittori di favole (storie stereotipate con un fine morale totalmente antropocentrico) piuttosto che prendere atto del "cambiamento" e sfruttare il nuovo arsenale a loro disposizione.
Prendiamo poi gli epigoni di HPL. Quasi tutti hanno riportato le sue teratologie cosmiche sulla terra, facendone dei simboli dell'incoscio, e tale operazione di normalizzazione, di mutilazione, è stata salutata come un transito della materia lovecraftiana dalla fantasia di un "immaturo" a ben più "nobili" lidi psico-simbolici. In realtà HPL non parlava affatto per metafore, e di materie oscure siamo circondati. Il problema qual è? E' che HPL preso "puro" mette una paura del diavolo. Sul serio. Non la paura tradizionale, quella legata ai concetti di bene e di male, di salvezza e dannazione, ma un vero e proprio timor panico che annichilisce e deride il ruolo dell'uomo nel cosmo. L'incipit del Richiamo di Cthulhu è profetico: sfiorati i neri mari di infinito, l'uomo sta fuggendo su isole di nuova, placida ignoranza. La psicoanalisi, il simbolismo, persino il surrealismo (oltre che la fantascienza stessa), sono vie, transiti verso queste isole, perché il modo migliore di esorcizzare un demone è dire che "esiste solo nella nostra mente", è il "simbolo del nostro inconscio", è uno "specchio della condizione umana".
Ogni tanto nasce un bambino ciclope con undici dita per mano, o la terra restituisce un fossile precambriano incomprensibile, o un esperimento del Fermilab mostra l'intrinseca assurdità del tessuto stesso della materia. Per un istante tutto vacilla. Ma solo per un istante. Freud, Dalì, Sartre, Dick sono lì, a rassicurarci, a farci pat-pat sulle spalle. A dirci che in un modo o in un altro tutto è ancora sotto controllo, perché persino i nostri incubi celebrano la nostra "centralità".

Le stelle sono nella giusta posizione; a essere completamente fuori posto sembrano essere solo gli scrittori
.
(Ivo Torello)